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Io non so chi sono, il viaggio di A. dall’Egitto

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L’àncora

L’Ancora è la storia vera di A, il suo lungo viaggio dall’Egitto, il racconto delle sue ferite, dei suoi sogni infranti e della paura di essere.

L’ancora ha rappresentato fin dall’antichità un vero e proprio simbolo di salvezza e molti di quanti hanno attraversato il Mediterraneo hanno sperimentato che spesso non è solo un simbolo ma è realmente l’unica speranza, l’unica possibilità di non essere inghiottiti dalle acque agitate del mare. Accade non di rado di non essere in grado di comprendere cosa ci sia dietro l’esperienza di una migrazione. Cosa realmente rappresenti emotivamente e psicologicamente la scelta di partire e lasciare la propria terra alla ricerca di una vita migliore, con il sogno di salvare sé stessi e la propria famiglia dalla povertà. Sogni che a volte vengono inghiottiti dalle acque. Ma non così per A, un ragazzo di 18 anni che all’età di 14 è approdato a Lampedusa.

“Ricordo ancora che ci dividevano, i grandi da una parte e i piccoli dall’altra… e io ero tra i piccoli, ma io non mi sono mai sentito piccolo. A sette anni mio padre è morto e io ho iniziato a lavorare e a mettere da parte i soldi, ci volevano settemila euro, ma siccome lavoravo per lo scafista mi ha fatto uno sconto e ho pagato solo 5000, ma ho dovuto lavorare per lui sette anni, poi un giorno mi ha detto di prepararmi che dopo una settimana sarei partito… ma nulla fino a oggi è stato come lo avevo sognato”

 

I sogni di A. si sono infranti più e più volte e ha rischiato di affondare non solo durante il viaggio in mare, ma anche in quello sulla terra ferma e ancora oggi nuota senza riuscire a fermarsi perché la sua grande paura è di potersi sentire a casa nella struttura dove vive da due anni e dover poi lasciarla perché ormai maggiorenne. Non è più piccolo. Per le nostre istituzioni, varcata la soglia dei 18 anni si è grandi. A. però non lo è nonostante la sua aria apparentemente spavalda e sicura di sé. Il processo terapeutico con A. è stato ed è molto complesso. I primi due mesi di colloqui sono trascorsi nel silenzio e nell’apparente indifferenza di A.

“Chi è sradicato sradica”, scriveva Simone Weil (1990, p. 53) e il contatto con lo sradicamento traumatico può essere spiazzante e di difficile gestione emotiva. Il processo terapeutico deve rispettare i tempi del paziente; è un processo lento, ma in queste circostanze esisteva l’urgenza dell’imminente maggiore età di A., un’urgenza che travolgeva lui e l’intero sistema che gli ruotava attorno: “casa famiglia, servizi sociali e perfino la psicoterapia”.

Io non so chi sono, voglio tornare in Egitto, non dovevo partire, ma ora non posso tornare perché dovrei fare tre anni di esercito… però se resto qui e non trovo lavoro, perdo i documenti, finisco in carcere, non voglio tornare a spacciare, io voglio solo piangere

 

Di fondamentale importanza per il lavoro con A e per instaurare con lui un’alleanza terapeutica è stato il non lasciarci travolgere dal tempo. A. ha paura del tempo che vorrebbe a tutti i costi fermare. Del resto non gli è mai stato possibile vivere il tempo presente. Vivere nella costante urgenza della sopravvivenza non gli ha permesso di fermarsi e di poter pensare a sé stesso nel qui e ora.

Quanto emerge dai colloqui con A. è la paura di essere sempre straniero, nel senso di estraneo, non solo per gli altri ma soprattutto per sé stesso. Per questo motivo A. si è omologato ed uniformato per riuscire ad appartenere e ad appartenersi; per riuscire a sostenere l’insostenibile solitudine che lo accompagna.

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