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Il progetto DAMA

Curare pazienti con disabilità si può e costa anche meno

Responsabile del progetto DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance) presso l’Ospedale San Paolo di Milano, Filippo Ghelma è più di un medico. O, forse, è esattamente come un medico dovrebbe essere davvero. Per lui il paziente è sempre al centro della propria attività e delle proprie attenzioni. Filippo (ama infatti subito dare del “tu” a tutti) è uno di quei medici che sanno ragionare fuori dagli schemi. Pronto a togliersi la divisa da “dottorone” e magari a effettuare un prelievo al bancone di un bar, se proprio il paziente non vuol saperne di camici bianchi e ambulatori. Questo è Filippo Ghelma. Ovvio che fosse lui a prendere le redini del DAMA, l’unico programma in Italia dedicato alla cura di quei pazienti, con gravi disabilità, che nella maggior parte degli ospedali non vengono seguiti in maniera adeguata per mancanza di strutture, protocolli e personale all’altezza.

Il DAMA, nato nel 2001,  oggi vanta risultati eccezionali: circa 5.700 pazienti con grave disabilità presi in carico, per un totale di oltre 54mila accessi. Si tratta di un modello di accoglienza ospedaliera in grado di prendersi cura dei problemi di salute delle persone con disabilità in maniera innovativa, flessibile e intelligente. Ma a fronte di tali successi, il DAMA ha bisogno oggi di essere fortemente rilanciato e replicato su tutto il territorio nazionale. Ma come la mettiamo col bilancio del Sistema Sanitario Nazionale?  E di tutti quegli enti (a partire dalle Regioni) che lamentano continue difficoltà a gestire opportunamente le proprie risorse? A queste domande Filippo Ghelma risponde con molta chiarezza.

Prendersi cura di pazienti complessi, come le persone con disabilità, può sembrare molto costoso per il Sistema Sanitario Nazionale.

Filippo tiene subito a fugare ogni dubbio: “In realtà non è così! Spesso organizzare un percorso complesso, con la compresenza di molti specialisti, può sembrare ‘costoso’. Ma abbiamo imparato che è possibile organizzare valutazioni multidisciplinari complesse in modo da ridurre al minimo l’impegno di tempo degli specialisti, senza influire sull’attività ordinaria dei vari reparti. In alcuni casi siamo riusciti a organizzare dei veri ‘team lampo’ con più di 10 specialisti contemporaneamente, realizzando in pochi minuti una serie di valutazioni ed esami clinici che normalmente avrebbero richiesto un ricovero ordinario di più giorni, con costi e risultati molto diversi”.

D’accordo, nessuna spesa straordinaria. Ma il risparmio vero, ovvero a lungo termine, dov’è?

“So che spesso è difficile avere una visione d’insieme delle cose ma in questo caso è fondamentale. Uno degli obiettivi del nostro lavoro è quello di ridurre due voci particolarmente gravose per il SSN: l’accesso in Pronto Soccorso e il ricovero ordinario. Il ricovero, in particolare, può mettere a dura prova le capacità di presa in carico dell’Ospedale, ha un costo sociale rilevante, considerando l’impegno richiesto ai familiari del paziente, e soprattutto può rappresentare un autentico calvario per il paziente con disabilità che deve passare tanto (troppo) tempo in un ambiente a lui sconosciuto e ostile, in cui difficoltà di comunicazione e l’incapacità di realizzare le attenzioni delle ‘cure parentali’ aumentano i rischi della degenza mettendo a repentaglio la sua stessa salute (autentico paradosso del ricovero  ospedaliero!)”.

Quindi qual è la vostra ricetta?

“Cercare di trovare soluzioni alternative al ricovero, più efficaci ed efficienti. In una parola, più appropriate. Parliamo ovviamente di ricoveri in Day Hospital e percorsi ambulatoriali anche molto complessi personalizzati. Ma non solo. A noi interessa anche creare un legame coi medici del territorio, che ci aiutino a prenderci cura dei pazienti complessi ancora prima dell’accesso in Ospedale. Tutto questo si traduce in un miglior servizio per i pazienti con disabilità (che è ciò che ci sta a cuore) con forti caratteristiche di continuità, che permette un’ottimizzazione delle risorse e che porta ad un risparmio notevole per il SSN (una delle spinte più forti per favorire l’esportazione del modello DAMA)”.

A proposito: quanto si sta diffondendo il progetto DAMA in Italia?

“La parola ‘diffusione’ mi fa pensare a un processo quasi spontaneo. Purtroppo ancora oggi è un lavoro durissimo, da parte nostra e di quelli che credono nel progetto. Attualmente ci sono in effetti delle esperienze che ci riempiono di orgoglio e ci fanno ben sperare. Penso al DAMA di Empoli, che cerca di estendere il modello in tutta la Toscana. Penso all’Emilia Romagna, dove il DAMA è presente in diverse strutture coordinate direttamente dall’Ausl di Bologna. Penso alle esperienze di VareseMantovaBolzano Cosenza. Cui si potrebbero aggiungersi a breve Terni, Pordenone, Aosta, che ha annunciato la sua adesione durante il recente incontro sul Monte Bianco e il Lazio, le cui Case della Salute potrebbero costituire una valida rete di avamposti del DAMA sul territorio”.

Sembra un quadro promettente.

“Non ci inganniamo! I medici del DAMA sono ancora dei ‘funamboli’. Ora che abbiamo dimostrato che il nostro approccio in ospedale funziona e che siamo, in un certo senso, autosufficienti, rischiamo di essere dati per scontati e abbandonati a noi stessi. Ma la richiesta sempre più pressante da parte delle famiglie che hanno finalmente trovato un punto di riferimento rischia di portare il DAMA, paradossalmente, al collasso! Esportare il nostro modello in maniera episodica non basta. Occorre fare rete. Serve la collaborazione del territorio, dei medici di famiglia, delle Asl, delle autorità regionali. E, come sempre, della consapevolezza di tutti”.

Filippo ci lascia poi con un ultimo pensiero: “Spesso, di fronte alle difficoltà del mio lavoro, mi faccio una domanda ben precisa. Se noi medici non riusciamo a curare un paziente troppo ‘complesso’, la  colpa è del paziente, o di noi medici che non siamo all’altezza?”.